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  (Le radici e i tronchi)
 
 
        
 Premessa dell’autore   Poche parole per non essere  frainteso. Nessuna pretesa, da parte  mia, di far testo né tanto meno di affidare alla penna di Coco Lafungia la  stesura di un’opera storico-sociologica degli ultimi 150 anni della nostra  città.
 
  Vero è che, sia pur tra lazzi e sbeffeggiamenti, si coglie l’estro per una  carrellata (alquanto lacunosa ed epidermica) sugli avvenimenti principali, sui  personaggi più noti, sulle tradizioni e sui costumi popolari che si sono  avvicendati in terra di Brindisi dal 1860 ai giorni nostri. E’ anche vero che  si è voluto approfittare (intento forse primario) della trattazione di taluni  argomenti per riportare alla memoria dei brindisini l’uso di termini, modi di  dire, perifrasi, motti, proverbi ed arcaismi in generale che costituiscono le vere  radici del nostro dialetto, oggi in disuso e sicuramente sconosciuto alle nuove  generazioni. Altrettanto si è voluto fare  per i costumi, consuetudini di vita quotidiana, rituali popolareschi oggi  smarriti o, comunque, modificati e travisati dall’inevitabile ammodernamento  sociale e filologico. Qualche esempio elementare ma emblematico: quanti giovani sanno che in  tempi relativamente recenti, oltre all’escavazione dei fondali del porto, molte  strade di Brindisi furono pavimentate (con lastroni lavici) dai condannati ai  lavori forzati che scalpellavano la pietra trascinando le catene alle caviglie?  E che il “Castello di Terra” è stato anche – per l’appunto – un “bagno penale”  su cui ci si  poteva affacciare dal  “Rastiglio dei Condannati” per osservare lo spettacolo di quegli sventurati che  “prendevano aria” con la palla di ferro al piede? E cosa rimane nella memoria  di oggi del “trasloco generale”, che si effettuava puntualmente il 10 agosto di  ogni anno fra gli abitanti delle “Sciabiche”? Chi era “lu zanzàli” e perché  tutti i matrimoni presupponevano categoricamente il suo intervento  preliminare? 
  Siffatte argomentazioni, ad  ogni modo, sono state affidate alla narrazione di Coco Lafungia che, non  potendo deludere le aspettative dei suoi lettori, ne smitizza e ne sminuisce  (solo in apparenza) la portata, alleggerendone la trattazione col suo  linguaggio strampalato e con la sua dialettica farsesca. 
  E’ quasi superfluo aggiungere  che, agli eventi rigorosamente veritieri e storicamente documentati, sono  inframmezzati brani di pura fantasia e di invenzione “lafungesca” che, per  restare in linea col personaggio, non potevano mancare. Questo “escamotage” mi  auguro serva per i più giovani i quali, ahimè, non hanno molto in animo di  accostarsi ai testi storici per apprendere, in maniera più completa e  dottrinale, quanto Coco Lafungia può instillare nel loro pensiero in modo  bonario, semplicistico, burlesco, leggero: sì, insomma, senza che se ne  accorgano. Realtà e fantasia, storia e invenzione, infatti, si mescolano sino a  fondersi o, meglio, a confondersi al punto tale che spesso il lettore si  chiederà: “Ma è proprio vero che…?”. Date, cronache, avvenimenti e personaggi  reali entrano a far parte di un amalgama   anche fantasioso, ma sempre coerente e “credibile” sia per la cronologia  che per la documentazione fornita. 
  La “Dinasty” dei Lafungia,  dunque, si snoda per quattro generazioni lungo l’arco di tempo che va dal 1860  al 2000, ragion per cui si è ritenuto congeniale ripartire il libro in due  sezioni. La prima riguarda la via e le “gesta” dei primi due capostipiti, la  seconda si riferisce agli ultimi due.   
  Dal primo volume (1860 - 1930) 
      QUALCHE RIFLESSIONE SULL’ EPOCA  Dopo l'impresa dei Mille, alla quale nanni Zachele  tenta invano di partecipare, si apre il difficile periodo post-unitario che  vede la Terra  d'Otranto in una situazione di grave disagio sociale, economico e politico. La  piaga del brigantaggio si propaga anche nel Brindisino dove trova terreno  fertile grazie ai "manutengoli" (ecclesiastici, latifondisti,  signorotti e politicanti), che auspicano ancora la restaurazione borbonica. La  popolazione - circa 18.000 abitanti intorno al 1870 - è costituita da  contadini, pastori e pescatori, tra i quali l'analfabetismo sfiora il 100%; le  strutture sociali risentono ancora fortemente del retaggio feudale; ignoranza  e miseria favoriscono il perdurare della "soggezione" e del  "servilismo" dei ceti inferiori nei confronti delle caste socialmente  ed economicamente privilegiate. La questione demaniale e il totale disinteresse  delle autorità alle quotizzazioni dei fondi da assegnare non fanno che  peggiorare una situazione già esasperata per i "villani" non proprietari,  che vedono ingigantirsi la potenza economica dei latifondisti di contro  all'indigenza in cui si dibatte il 90% della popolazione. 
  Il  rispetto delle leggi, in qualche modo demandato all'esercito, viene  sistematicamente eluso a tutti i livelli, vuoi per l'incuria delle autorità  vuoi per gli interessi privati dei potenti vuoi per l'ignoranza dei ceti bassi.  L'industrializzazione (ovviamente tutta incentrata nel porto), ad onta delle  affermazioni ottimistiche di qualche storiografo dell' epoca, tarda a  "decollare" e subisce intoppi, fallimenti, boicottaggi, rinvii e ...  disguidi d'ordine politico-burocratico (già d'allora!). 
  Nel  1890, Brindisi conta tre banche, una scuola elementare ed una tecnica  "parificata", un ospedaletto civile, due librerie, sette agenzie di  navigazione e di emigrazione, tre ristoranti, due alberghi (più qualche  locanda), sei farmacie, una gioielleria, un orfanotrofio, qualche agenzia  consolare, due case di pena. 
  Ma  c'è di buono che la città conserva ancora integro il suo stupendo patrimonio  ambientale, i litorali d'incomparabile bellezza, i palazzi, i monumenti e le  vestigia del suo glorioso trascorso storico.
   TIEMPI INFAMI Il buonanima del mio nanni, che sarebbo il nonno del mio  tata, si chiamava Zachele e aveva nato nell'ano disgrazzia 1840. Era più  meglio canosciuto collo stranome di Sette Saiette essendo che quando che si  assettava al cantro il fiezzo si moriva e tutta l'aggente dicevano: emmenchia  papa che quello si mangia il bene Diddio eccaca saiette. A quell'ebbrica la  miseria era più peggio di mò e, datosi che tutta la famiglia erano miserabbili  eppezzenti, il povero nanni Zachele Sette Saiette faceva di professione il  villano aggiornata all'età di anni 14 emmezzo e si faceva tanto di siddone  andando a cofanare attempo di vendegnia, a cogliere aolìe, sarginischi e  scarcioffoli e a stompare il musto ai stabblimenti. Non teneva mai una lira  che si sparava essendo che i patroni lo paiavano a pane eccipolla e fuggi chè  notte e lo facevano corcare nella mangiatora dei cavaddi che almeno si scarfava  all' àffoto como il Bambiniello del prisebbio. (N.d.A.) Ogne sera faceva una preghiera a San Ballarano Martire  dicendo se gli faceva locazzo del favore che lo faceva addiventare ricco,  modochè poteva mangiare carne e maccarroni ogne giorno e si poteva cattare un  materazzo di crino coi lanzuli di percalla. Ma la grazzia nonci arrivvava mai  e nanni Zachele era sempre più miserabbile che la mazzitudine si aveva ridotto  uno zippo d'arieno e quando che andava fuori accampagna caminava avviento e  nossi fidava manco a biastimare.
 Eddecco che la figlia menzana del patrone, Rusinella, manco  lo vedette sene andiede di capo che ogne fiata che si contravano essa bampava  como una schiattagnòla, ma però, essendo chera propio un cacaturo che più  peggio noè possibbile, a Zachele gli venivano i cognati di vomito e quando  quella passava lui diceva iàcchisi e menava ratti che atterra. Tutta via  Rusinella fu per egli una vera Panna del Cielo essendo che gli portava di  sconduto piscuetti, casoricotta, ove allesse, pipi all'acito e puramente  quarche brasciola di pulledro alla domenica, modocchè Zachele si grassacchiò e  si facette uno giovinotto bello alla veramente che tutte le carose selo  mangiavano coll'occhi.
 Fuggiva l'ano 1860 quando Zachele gliela ingarzettò a  Cuncipita chera la figlia del massaro Cillo Mamma Lacoscia, di cui quella  babbalocca rimanette prena e il massaro gli dicette al nanni che addue tela  dò, o tu tela sposi mò emmò o puramente tene faccio zompare l'aciola con una  botta di ronca e soccazzi tuoi. Zachele gli venette un attacco di sciolta e  dicette che sì, sì, vabpene, voi facete le spubblicazzioni alla chiesa che io  mi faccio cosere l'abbito da mestro Nino Battichianca. E datosi che Cillo Mamma  Lacoscia era canosciuto como un alimento pericoloso, quella notte stessa  Zachele sei a filò alla secorduna che, pella cacazza, fuggiva como un lepre e  quando stava lucescendo .si trovava già a un altro pizzo di mondo e  pricisamentenell'antiqua città di Carvigno.
 Nota della Utore: la parola "àffoto" è doriggine  antiqua e mi significa fiato, ma però si usa addire quando che uno puzza assai  di miero o puramente di agghio.
   FRATELLO ANGIULINO MONICO CAPPUCCINONel mentre che stava intrignolando di friddo e la panza gli  ruggiva pella fame, Zachele si rammentò che a Carvigno teneva un parente alla  lontana di professione monico cappuccino e di nome Angiulino detto Raschiaporte.  (N.d.A.) Mediatamente andiede a tuzzare alla porta del cumento alla  quale si intese dire di dentrovia:
 Chi è che tuzza al mio cumento colla pioggia e collo viento?
 E Zachele rispondette senza leggere e scrivere:
 Sò nipotita Zachelino, apri, butto di pallino!
 Basta, il giovinotto fuggente venette ospitalizzato al  cumento dove che, apprima vista, si trovò como un papa d'Iroma essendo che  strafocava como un puerco e faceva l'arte di Calasso che mangia beve e va  all'aspasso. Tutti i monichi lo avevano pigliato assimpatia e acchì più gli  diceva: ma perchè notti fai picuezzo che poi, più dilà collo tiempo, ti  addiventi monico e fai la vita di nà babbo como annoi che, nà fatia nà, chi  sene fotte? E quasi quasi Zachele si aveva fatto capace ma "quandu squagghia  la nevi essunu li strunzi" (N.d.A.) e doppo quarche tiempo principiò  avvedere che dentrovia al cumento succiedevano fatti streusi che, presempio, la  notte si vedevano caminare nei ballaturi monichi che parevano moniche eppoi si  sentivano male parole e biasteme di dentrovia alle cambaselle cellulari.
 Ma la cosa più terribbile succiedette quando che lo mandò  chiamando il capo monico (che sarebbe l' Abbacchio) dicendo che lo doveva  confessare datosi chera la   Candelora, ma la verità era che zù monico era piederasto e  ciovè orecchione ghei. Acquesto punto succiedette un vero eppropio fuci fuci  che Zachele scappava davanti e l' Abbacchio lo seguitava di dietrovia colla  candelora ammano dicendo: fermiti peccatore, fermiti e pintisciti! E Zachele  rispondeva che mò emmò mela devo battere da questo cumento della garzetta e nà  che ti dò che mi faccio picuezzo!
 Eccosì strapassò il guscio della porta e sparette di caloppo  immezzo alla campagna.
 Nota della Utore: può essere che era un antennato del celibe  Rascaporte che vivette a Brindisi nel si ecolo 1900.
 Nota della Utore: mi vedo costrinto a usare il dialetto  essendo che questo è un priverbio antiquo e le parole noè possibbile che si  cangiano a lingua taglian
   MASINO PAPPALUPINI Eddecco arreto il povero Zachele Sette Saiette che caminava  a rimengo senza sapere addocazzo sbattere la capo, che puramente si avevano  busciorate le sole dei scarponi e portava i piedi suppi dacqua e surgelati. E  camina e camina giungette a una massaria spirduta immezzo all'arvoli d'aolìe  dove che vedette un cristiano che stava serrando aschie per il focalire e gli  dicette se dalle volte gli poteva dare un picca di fatia essendo che non teneva  un sordo manco per un muerso di pane. Il villano, la quale si chiamava Masino  Pappalupini, si dispiacquette assai e lo facette trasire dentro casa dove che  gli desse un panetto di crano e un cucco di Susumanieddo che armeno Zachele si  restaurava un picca. (N.d.A.) Settati davanti al focalire tutt' eddue principiarono a  parlare nel mentre che la mogliere di Masino cucinava uno stanato d'intrame di  cavaddo col pipino uschiante. (N.d.A.)
 Conta e conta, Masino gli dicette a Zachele che aveva inteso  parlare di un incerto Pippino Caribbaldi la quale gli bisognavano un migli aro  di cristiani colla camisa rossa essendo che doveva fare l '!taglia che lui non  sapeva bene diccheccazzo si trattava. Mediatamente a Zachele gli venette un  pinsieri che andava pure egli che può essere che si sestimava e si buscava un  picca di monete, ma però no teneva la camisa rossa che quella che portava era  tutta ripizzata accolori.
 Allora Masino Pappalupini gli dicette che poteva zappare la  terra allui e che lui accambio gli dava ammangiare e gli faceva la camisa con  una pezza di cuttone rosso che teneva dentro alla cascia.
 Eccosì facettero che Zachele zappò, sarchiò, putò e serrò  aschie una sittimana nel mentre che la moglie re di Masino gli cucinava e gli  coseva la cazzatora della camisa rossa. E arrivvò il momento della dipartita  essendo chera il mese d'Imarzo e Ammaggio Pippino Caribbaldi dice che doveva  fare l'Itaglia, se tra lo quale Zachele doveva arrivvare all'ampiedi fino a  quell'imberda di squegghio d'Iquarto che macari la parte di mare sela doveva  pure fare natando natando.
 Eccosì la mogliere di Masino gli priparò una visazza con due  panetti di crano, sesette cipodde, una manata di aolìe nere, una menza  pendola di pombidori e un buttiglione di Marvasia che Masino gli ficcò in pata  puramente quattro sordi per il viaggio.
 L'ultimo giorno d'imarzo alle ore 4 di matina, Zachele Sette  Saiette si mettette la via sotta i piedi dicendo fra sè essè: spram' Addio che  questo Pippino Caribbaldi è un calantomo ecchè, doppo che facciamo questa  Santa Cuniconda d , Itaglia, mi trova un posto di massaro o puramente mi regala  un paro di tummini di vigna che io mi metto apposto.
 Nota della Utore: il cucco era uno bicchiere di creta colla  manica attipo bucàlo ammisura di una quarta eppiù. Il Susumanieddo era un  miero veramente como Dio comanda che insieme al Necramaro e alla Marvasia erano  )'avanto della città di Brindisi. Nel siecolo 1900 noli o hanno fatto più (e  manco il Muscriddone) essendo che l'uva di quella razza era poco a rendere e ai  villani nogli conveniva. Nota della Utore: l'entrame di cavaddo è una rizzetta  antiquissima che nessuno la fa più e ci volevano due giorni a pulizzare e  sciacquare l'entrarne coll'acqua e acito, a tagghiare a pizzetti, a cucinare  colla cipodda, agghio, pipaluri, rosamarina, àglio doli va essale. Coll'entrame  di cavaddo si facevano puramente le brasciole col putrisino. L'ultima fiata  che io sotta scritto là saggiate ha stato nella vernata 1956 alla cantina di  Piliego (via Luccio Strambone) che le aveva cucinate mestro Pietro Bungaro che  all'ebbrica teneva ottantanni e portava la tabbacchiera di fierro coi cartini e  trinciato forte.
   IL VIAGGIO CESAREBBRAICO
 
 
  
Camina e camina, ogne tanta trovava quarche carrittone o  quarche travino di passaggio che gli faceva fare un picca di strada ancavaddo e  come che gli teneva fame si sculappiava mò una cipodda, mò un'aolìa, mò un  pombidoro col pane evvino. La notte si ficcava dentrovia a quarche pagghiara  che la matina si discetava colle iaddine di coste e si fotteva puramente una  cocchia dove fresche surchiate.
 Di questo passo arrivvò a una città foresta che si chiamava  Caeta essendo che forse quello che laveva affondata si chiamava Caetano e allì  decedette che andava a una cantina (che a Caeta si chiamava pettola) e si  spendeva due sordi di mangiare cucinato attipo pasteffaggioli o  risopataneccozze. Manco trasette dentro a questa pettola che mediatamente  vedette un nunno che stava assettato ammangiare e portava la camisa rossa a  dosso che subbito dicette fra sè essè che mi pozzano tagghiare la coglia se  quello noè uno Caribbalduccio che deve andare Acquarto pure egli; ecco sì si  vicinò e dicette: bongiorno assignoria e scusiatemi, ma che dalle volte  dobbiate andare addò Caribbaldi? Quello alzò la capo, lo guardò fisso fisso  eppoi rispondette: e attè checcazzo tene fotte? Zachele rimanette un picca  d'imberda, si facette rosso un cavuro e dicette: no, datosi che devo andare  pure io che la camisa rossa la tengo dentrovia alla visazza colle cipodde,  volevo sapere se lei siete ... Eddecco che quello s'impizzò ti so tutta una  volta e critò: bravo, bravo, sì, sì che devo andare addò Pippino Caribbaldi che  gli dobbiamo fare tanta di tafanaro alli Barbonici e giacchè ci abbiamo  trovati, voldire che andiamo insieme Aggenova che allì si trova lo squegghio d'!quarto;  io vengo di Brindisi e mi chiamo Cesarebbraico. (N.d.A.)
 Zachele si squaquagliò sobbra una seggia pella mozzione  essendo che quello era un persono assai canosciuto a Brindisi eddera un  scinziato scrittoio e puramente era un grande roe. Eccosì si trovarono  assettati insieme alla banca e datosi che Cesarebbraico dicette che paiava  egli, Zachele si sculappiò Roma Stroma e l' Abbasilicata e ciovè trippa,  porpette, zanghette, galluccio rostuto e casocavallo.
 Quella nottata fu la più migliore di tutta la vita per  Zachele essendo che Cesarebbraico si aveva fittato una cambera per dormire di  carbo prima della dipartita e gli desse ospizzio pure allui che si corcarono  insieme nellietto patrimoniale. Il povero Zachele che mai si aveva inteso  tanta comoto e binchiato, si addormiscì mediatamente nel mentre che,  all'imbersa, Cesarebbraico non pigliò riggietto accausa delli scattarizzi e dei  strazzapercalli che quello sparò alla diggistione di tutto il bene Diddio che  si aveva strafocato. (N.d.A.)
 Al cramatina Cesarebbraico teneva il posto pregiudicato  nella carrozza e si dispiaquette di Zachele che seI a doveva fare piede piede,  di cui gli desse una cosa di sordi al cioffèr che lo facette prendi care  dietrovia attipo "nunnu dretu". (N.d.A.)
 Ma così a pendolacchio Zachele stava propio d'imberda che a  ogne ributto tuzzava mò i musi, mò il coccolo, mò le clavicole dei piedi, mò i  vomiti dei razzi, tanto che diceva fra sè essè: maledetto ammè e a quando che  ho deceduto di farmi Caribbalduccio, che io l'Itaglia non so manco di  chemmenchia si tratta e acquì mi sto sconocchiando como un menchialire.
 Ogne modo, a male ebbene, tutto cuezzi e vissiche, òzzuri e  mierchi, finalmente la carrozza si fermò Aggenova e Cesarebbraico gli dicette:  bè, abbiamo pervenuti che mò ci dobbiamo su care quarche picca di strada  all'ampiedi eppoi ci troviamo coll'altri 998 essendo che noi siamo 2 e fanno  1000 che non dippiù li vuole Caribbaldi.
 Nota della Utore: questo persono è il celibe Cesarebbraico  chera uno colla cervella d'eugenio e teneva il palazzo alla via Fiorante Fomaro  nQ 18 dove che sta ancora la lapida difronte all'arco della chiazza.
 Nota della Utore: i rimori che si fanno di dietrovia si  chiamano in lingua tagliana assecondo della fortezza e della suonata: loffia,  pipiticchio, pipito, pipitone, scattarizzo, fùrgulo, strazzapercalle;  antiquamente la loffia si chiamava vissìna, lo scatta rizzo è quello attipo  tricchitracchi che sene fanno trequattra eppiù, il fùrgolo è attipo viento di  tramuntana quando che fischia dalle sgarrassatore, lo strazzapercalle è come  quando si squarta una pezza di percalla.
 
 Nota della Utore: queste parole si hanno principiate a usare  quando che i vagnoni di mezzo alla strada si prendicavano dietrovia alle  carrozze e quelli che stavano atterra critavano "nunnu dretu" che il  cacchiere iaticava botte di scuriato all'andrètola che neli cacciava.
   PIPPINO CARIBBALDI E COMPARI 
 
  L'imbarco di Garibaldi per la Sicilia
 
 
Ecquì ti voglio che sobbravia a quell'imberda di squegghio  non ci cacciavano tutti emmille, alla quale, nel mentre che aspettavano Pippino  Caribbaldi che li faceva salire sui motobbarchi, barchi arrimi, paranzi,  schifarieddi e bittoline, succiederono cose turche como presempio carcagnate,  scuddacchi, cacinculo, picozze e sputazze essendo che acchì più si voleva  mettere apprima fila per pigliare i meglio posti. Il povero Zachele si facette i piedi a salissìa dato si che  portava le sole busciorate e gli trasevano nei carcagni i spuntoni di  squegghio, le scorze di cozze e i spini dei rizzi. In questi rinfrangenti  passarono trequattro orine che più duno pareva comesia che era già fatto la  uerra d'Itaglia a quante mazzate si aveva buscato e nel fammentre Zachele si  perdette con Cesarebbraico e nollo rivedette maippiù.
 Finalmente arrivvò Pippino Caribbaldi la quale portava una  sciamberga rossa e un coppo lino a cantarieddo con una varva di duettrè mesi  che tutti dicettero fra sè essè: E questo qui sarebbo le roe di due mondi di  cui pare vestuto di carnovale? Ma quello s'impizzò sobbra una cascia di alici  e, senza dire neà e nebbà, principiò a contare alle capore capore se quelli  pillicrini erano alla veramente a numero 1000 e taccosì dicette: 997, 998, 999  emmille e arrivvò a contare la capo di Zachele dove' che biastimò San Diatoro  essendo cherano 1001. E allora Caribbaldi uccolò: E tu checcazzo fai? Nollo sai  che non potiamo andare contro all'astoria? E che dici che mandiamo tutto  apputtane che poi devono dire che siamo fatti la banda dei milleùni la quale  sona pure brutto? Positivo tu tene puoi pure andare affanculo che sei dippiù!
 E a quattro e quattrotto tutti salettero sobbra i barchi e  si mesero a voiare attotta forza addirezzione di due grandi bastimenti che li  aspettavano allargo e che andavano a Marsala e non sè mai capito comè  possibbile che quelli bastimenti invece che andare a Nàffita andavano a  Marsala.
 Lo sbenturato Zachele rimanette solo como un priso sobbra  allo squegghio e di lontano pareva comesia il faro delle Petagne. Novvi dico  le biasteme di cui diceva che l'Itaglia principiava propio bene che già faceva  figli e figliastri e già di mò si capiva chemmenchia di coverno ci doveva stare  che di questo passo si arriva sicuramente alla Dimocrazzia Cristiana, a  piangentopoli e cetera.
 Ma oramai non ci stava più niente di fare ecco sì si facette  un picca di cozze accetta e una ventina di rizzi din faccia allo squegghio che  almeno si mangiava quarche cosa, doppo dicchè sene tornò arriva e benomale  che si impiedava che senò si avrebbe puramente custipato.
 
 
 
  Dal secondo volume (1931 - 2004) 
  TATA  CICCILLO BOMPASSO   QUALCHE   CONSIDERAZIONE SULL’EPOCA Dal 1° Gennaio 1927  Brindisi è diventata capoluogo di provincia, ma questo “salto di qualità” non  sembra coincidere affatto con un’ascesa adeguata dell’economia, dello stato  sociale, dell’assetto politico e culturale della città.Mussolini viene a  porre la prima pietra del Collegio Navale “Tommaseo” e quella realizzazione  appare agli occhi di tutti come un fiore all’occhiello per il prestigio futuro  di Brindisi, ma l’incapacità cronica, l’ignavia e l’apatia politica faranno  rapidamente appassire quel fiore che, nell’arco di un solo trentennio, si  trasformerà in quello scandaloso ghetto che tutti abbiamo avuto modo di  conoscere.
 Svetta verso le nuvole  il Monumento al Marinaio d’Italia e chi ci osserva da lontano è indotto a  pensare ad una grandiosità “generale” che, al contrario, è soltanto apparenza  ;  si vara un piano regolatore che  prevede l’abbattimento delle Sciabiche e di San Pietro degli Schiavoni “senza  possibilità di restauro o di ricostruzione dei suddetti rioni”, ma il piano non  va oltre una scriteriata demolizione e non sarà mai attuato nei suoi progetti essenziali,  come il previsto (e mai realizzato) corso che avrebbe dovuto congiungere Piazza  della Vittoria a Piazza Santa Teresa e che avrebbe evitato tanti “disastri”  urbanistici  perpetrati in futuro…
 Scoppia la seconda  Guerra Mondiale e Brindisi conosce la gloria di assurgere al rango di capitale  d’Italia, una “capitale a metà” come qualcuno giustamente ha scritto, una  capitale “di comodo”, vorrei aggiungere, che serve da rifugio ai regnanti in  fuga e al loro foltissimo seguito.  I  Brindisini guardano al “Governo Provvisorio” con diffidenza e malcontento  mentre assistono impotenti allo sperpero del denaro pubblico da parte della  famiglia reale e del suo seguito: si parla di un milione di lire (nel ’42!)  bruciato in una sola giornata per “le prime necessità” di installamento di Sua  Maestà che, a causa della fuga precipitosa da Roma, non ha potuto portare con  sé quanto gli occorre…
 La guerra, questa  volta, lascia segni terrificanti del suo passaggio: una prima stima del ’43  parla di 3000 vani – dei 15.160 censiti nel ’40 -   distrutti dai bombardamenti e di altri 2.095  danneggiati e resi inabitabili; l’inflazione sale alle stelle e i Brindisini  sono spesso costretti al baratto per procurarsi il cibo; le già scarse attività  industriali si paralizzano del tutto e le manifestazioni di protesta si fanno  sempre più frequenti.
 La ricostruzione è  lentissima ma la città non sembra darsene pena: l’avvento degli alleati  americani importa il cewing gum, la corned beaf , il  boogie-woogie e i Brindisini sembrano pervasi  da una sorta di frenesia che li porta, inconsapevoli, ad anticipare il boom  degli anni 50 e 60: dovunque si aprono sale da ballo, i numerosi caffè sono  sempre stracolmi di avventori, i cinematografi e i teatri registrano sempre il  tutto esaurito, i camerini del nuovo lido “Sant’Apollinare” vengono prenotati  da un anno all’altro, si gioca d’azzardo in svariati locali, il numero dei  bordelli (tra quelli statali e quelli “privati”), se rapportato alla densità  della popolazione, detiene il record nazionale…
 Ma tutto questo  fermento cela una realtà socio-sconomica addirittura contrastante con quel  benessere che la città vive solo in apparenza ed anche le tabelle statistiche  dell’epoca traggono facilmente in inganno: il contadino che possiede meno di un  ettaro di terra, da cui deve trarre il sostentamento di una famiglia spesso  numerosa,  viene catalogato come  “proprietario” alla stessa stregua di chi possiede più di 50 ettari; nelle mani di  appena 425 proprietari (in tutta la provincia) sono ancora accentrati ben 57.127 ettari di  terreno (circa la metà dell’intera superficie provinciale coltivabile); le  famiglie di braccianti che vivono della modestissima paga giornaliera sono  ancora più di 14.000 nel 1931, mentre poco più di 1000 sono quelle considerate  benestanti; le proprietà terriere al di sopra dei 100 ettari sono ancora  numerose nel 1929 e circa 160 sono ancora i latifondi con più di  500 ettari di proprietà; l’assegnazione dei  terreni prevista dalla “riforma-stralcio” accontenta solo una piccolissima  parte dei nullatenenti e dei braccianti che avevano fatto domanda (419 su  5.353) e le sommosse popolari si fanno frequenti e sempre più tumultuose,  specie nei paesi della provincia; pochissimi giovani sono occupati come operai  nelle industrie e un’esigua schiera di contadini abbandona i campi per tentare  la via del piccolo commercio al minuto; per niente perseguìta o arginata,  dilaga la piaga dell’usura. Nonostante il Liceo-Ginnasio “Benedetto Marzolla”, sono ancora pochi i  ragazzi che arrivano a conseguire il diploma di scuola media inferiore e anche  Brindisi comincia a conoscere il fenomeno dell’emigrazione: intere famiglie si  trasferiscono al nord dove trovano lavoro di manovalanza nelle fabbriche e  nelle industrie sempre in incremento e molti giovani espatriano in Belgio, in  Germania, in America.
   VITA DI VILLANI E QUARCHE INFURRATA Tata Ciccillo, pure che  aveva andato sempre accampagna e oramai si aveva addiventato pure egli di  professione villano, aveva cresciuto como un persono strovito e corto, essendo  che il cussoprìno papa Ciccio Cisaria delli Pisciapizzuli gli era sempre fatto  scola e gli era imparato un puzzo di ricognizioni. (N.d.A.)Di soprappiù aveva  pure andato alla scola serale di coltivazzione la quale era addavero una bella  cosa che si faceva a Brindisi che gli imparava ai villani a cortivare la terra  alla maniera moterna (di tando).   A tutt’occiò  si deve giungere pure il fatto che tata Ciccillo si aveva scritto alla  compagnia di papa Pascalino Camassa che si chiamava “La Sbrigata” dove che  andavano tutti i personi più altoloquiati che si contravano dentro a San  Giuvanni apparlare di cose assai difficilissime che poi vedremo. Fuggiva l’ano 1930 quando che una sera tata Ciccillo gli dicette a nonno  Cosimo: senti uè tà, che acquì dobbiamo chiantare le barbatelle la quale sono  vignie che pervengono della Merica e dice che ti fanno fare una vendegnia  addoppio tutti l’anni.   E taccosì  facettero che chiantarono a barbatelle tutta la Minnuta e, la verità,  doppo due anni che crebbettero i cipponi la vendegnia fu addavero addoppio e  venettero puramente incerti artitagliani che si cattarono tutto il miero quando  era ancora musto e selo portarono all’artitaglia modochè lo imbisturavano como  gli piaceva a essi e ciovè a acqua ciòccia.   (N.d.A)
 Ma i cazzamari  principiarono quando che la sera di Sammartino nonno Cosimo volette saggiare  quello miero nuovo e si gnottè una sursata del cucco che mediatamente facette  l’occhi di nannaronchiola e la faccia di culumbo fracido principiando a  ratticare addestra e manca tutto schifato.
 Basta, doppo che si  ripigliò con un paro di cucchi di Necramaro vecchio dicette: sentimi sano Ciccì  che tu e le barbatelle mericane vene potete pure andare affanculo, essendo che  questa culostra cela ingarzi all’artitagliani che se io cela faccio saggiare a  comparima Diatoro Zazzaredda quello minimo minimo mi rovescia in faccia!  (N.d.A.)
 E allora si metterono  d’accordo che tata Ciccillo proseguitava colle barbatelle mericane insieme a  Antonuccio, nel mentre che nonno Cosimo si teneva la partita vecchia d’imbero  al Pagghiarone che si faceva il Necramaro, la Marvasia e il Muscriddone  a quello biondo dio.
 La verità nonna Cosima  nottanta voleva essendo che diceva sempre “sparti ricchezza e cugghi miseria”,  ma però le cose andiedero bene che ogne anno si faceva una vendegnia molto  ricchissima essi vendeva all’artitagliani pure luva sobbr’alla chianta che il  miero selo facevano essi comocazzo volevano, nel mentre che a casa si  sculappiavano quello che faceva nonno Cosimo.    Ma a dimostrazzione che nonno Cosimo aveva raggione addire che il miero  nuovo era una cifreca, succiedette un fattariello un picca spiacente che mò vi  conto.
 Sott’alle feste di  Natale di quello stesso ano, venette accasa Diatoro Zazzaredda che gli portò i  cacchitielli zuccarati di moglierisa a nonna Cosima eccosì si metterono alla  banca che si bevevano quarche cucco di miero, di cui Diatoro  Zazzaredda dicette che si voleva bevere quello nuovo delle barbatelle, essendo  che forse forse pure egli sele chiantava per fare un picca di vendegnia  dippiù.    Nonno Cosimo mediatamente gli  dicette che non faceva il carniale essi beveva meglio meglio il Necramaro o  puramente la Marvasia  che quell’annata aveva venuta un rasoglio, ma quello si aveva fissato e, pure  che stringeva i musi como un sorge, si sculappiò duettrè cucchi di miero  novello uno dietrovia l’altro.   Ora  ebbene, doppo una menzora che stavano apparlare di più e di meno, tutta una  fiata Diatoro facette comesia la faccia di ròchina nel mentre che si chicava  addue sobbr’alla seggia.  Ecchè e che  noè, ecco che gli scappa un pipito luengo luengo e fino fino attipo trènola, la  quale mi significava che si aveva cacheresciato tutto a spruscio dentrovia ai  cazoni.
 Basta, senza che vi faccio una testa di chiacchiere, Diatoro Zazzaredda  stese tristo di visceri più duna sittimana che la sciolta no stagnava manco coi  cannonati e quando che si assettava al cantro si sentiva comesia una mitraglia  fino a sobbr’alla Pezza.   Ma però le  barbatelle sele chiantò lo stesso che ci vendeva luva all’artitagliani che  armeno gli veniva lo scuerpo a essi e allo Re d’Itaglia che lui ci colpava di  tutto questo procresso e che si stava più meglio ammano alli Borbonichi.
 
 Nota della Utore: “lu cussuprìnu” si chiamava antiquamente  acchì era sicondo cuggino della vanda di mamma;   di papa Ciccio Cisaria poi parleremo più davanti.
 Nota della Utore: si  chiamava acqua ciòccia il miero nacquato o puramente il latte nacquato o  puramente quando che si faceva il brodo senza carne e tutto acqua.
 Nota della Utore: la culostra, acchì nollo saprebbe, è la parte  acquatica del latte. Si chiamavano taccosì  quelli zilli che gli uscivano delle menne alle femmine partorite di picca:  positivo nonno Cosimo gli schifava quello  miero acquatico e dissapito. Cè da dire  però che pure quello miero, attempi di mò, avrebbe stato una bellezza, essendo  che mò non sanno manco più che cosè il miero como si deve essi bevono culostre  e cifreche dicendo che sono di marca essi vendono bottigliate; ma all’ebbrica di nonno Cosimo quello miero  era una schifaggine a confronti di quello che si aveva fatto fino a tando.
   CANDI A BRINDISI: LATTE DI CRAPA O PRIMITIVO? Brindisi, 14 dicembre 1931
 Gandhi si imbarca sul piroscafo Pilsna diretto a Bombay
 Attutto Brindisi  andavano dicendo che doveva venire collo bastimento il capo di tutta Lindia la  quale si chiamava Candi e ci stava acchì diceva chera comesia un santo, acchì  diceva chera uno che non ci mangiava mai, acchì diceva chera un monico, acchì  diceva chera quello che si aveva inventato la lavapiatti e la cucina a gasso  (che positivo si chiama Candi) e cetera. Fuggiva l’ano 1931 edderano li 14  d’Icembre quando che il bastimento di questo Candi traccò abbasso alla marina  dove che papa Pascalino Camassa andiede per darci il bevvenuto insieme a  quarche duno della sua Sbrigata, alla quale andiede puramente tata Ciccillo che  si aveva portato un panaro imbucciato con una mappina che nossi sapeva  chemmenchia ci stava dentrovia e io mò vi conto.   Essendo che tata Ciccillo  era venuto assapere che questo povero Candi lo avevano fottuto aggalera dove  che nonci aveva mangiato per 22 giorni di proseguito, pensò bene che gli  portava quarche cosa che si faceva lo stomaco essi ripigliava un picca e  taccosì era ficcato dentrovia al panaro una pezza di caso picorino staggionato,  tre sasizze col pipo, quattro ove allesse, un panetto di pane di crano e nonno  Cosimo, a cautela, ci era ficcato puramente un buttiglione di Primitivo avventi  cradi che quello disinfetta e fa bivescere pure i defunti.
 Di questa maniera  Ciccillo sene andiede abbasso alla marina dove che ci stavano già tutti  l’amichi della Sbrigata con papa Pascalino Camassa e il bastimento che aveva  già pervenuto e nel mentre che aspettavano la discesa di Candi, tutti si desero  da fare a sestimare il cambarone grande della stazzione marittima coi fiuri e i  cartoni che sopravia ci stava scritto “bevvenuto Candi”  “viva Candi” e cetera.  E finalmente ecco che un cristiano mazzo un  chioto trasette dentro al cambarone vestuto con una sciamberga bianca coi razzi  di fuori che parevano due zippi d’arieno acquanto erano fini e la zella lucida  uno specchio che salutò attutti alzando allaria questi razzi di stangarieddo  alla quale Ciccillo dicette fra se essè:   benomale che sono portato il panaro che questo qui mò sene va ai  calippisi accome va sciupato e mazzolente.   Eddecco che doppo che si avevano imbrazzati, papa Pascalino facette  segno a una carosa biatella la quale già le cose si avevano priparate di prima e sene venette annanti  con una guantiera che sopravia ci stava uno bicchiere vacante e una ucala di  latte di crapa di cui si vicinò a Candi celo offrette dicendo beviate beviate che questo vi fa  bene.   Acquesto punto Ciccillo dicette  fra se essè: ma che si hanno infessuti che gli danno il latte a questo  poverocristo che va morendo tiso acquanto è mazzo che mò sciomba pella  dibbolezza?   Eccosì si vicinò pure egli  a Candi e scoppolò il panaro dicendo: non date denzia a questa sciaddea signor  Candi e pigliatevi meglio meglio questa robba qua che ti va in un osso e  mediatamente lei vi mettiate a zompare como un cardillo e ingrossate un picca  che mi parete un ossario vivete accome stiate combinato.   Avvedere questa sceneggiata papa Pascalino  facette la faccia brutta essi mettette immezzo dicendo a Ciccillo: ma si può  sapete che ti passa pella capo?  Nollo  sai che quest’omo noè possibbile che beve al miero accausa della sua  tirliggione? Eppoi nollo sai che manco ci mangia mai eddè assai difittoso di  stomoco? (N.d.A.)
 Tata Ciccillo si  intese tutto scornato davanti a tanti personi essi facette rosso un cambero  pella frusta e già era imbucciato il panaro colla mappina essi voleva lontanare  ma Candi gli mettette una mano sobbr’alla capo e gli facette puramente una  risella dicendo crazzie crazzie essi pigliò il panaro che celo passò a una  cambariera che lo andava a stipare. (N.d.A)
 I leggitori devono  sapere che immezzo acquella compagnia ci stava puramente un incerto Giuvanni  Poli la quale era ancora assai giovanissimo e gli dicette a Ciccillo: bravo,  che sei fatto proprio una bella cosa che gli sei portato quello bene Diddio a  quello povero cristiano!  E di quello  momento tata Ciccillo e Giuvanni Poli si addiventarono amichi fratellici  avvita, ma di questo persono parleremo più davanti.
 
 Nota della Utore: la  parola “tirliggione” era usata antiquamente e mi significava in lingua tagliana  la riliggione.  Questa parola la potiate  trovare in faccia ai libbri di papa Luviggi e di papa Camassa.
 Nota della Utore:  tutti i giornali di quell’ebbrica contarono  questo fatto che puramente in faccia a quarche libbro ci sta scritto il fatto  che papa Pascalino gli offrette a Candi il latte di crapa, ma però nessuno  dicette del panaro che gli  offrette tata Ciccillo Bompasso.
   COMO SI FACEVA LA PRICISSIONE DI SAN  DIATORO AMMARE 
 
        I leggitori,  massimamente quelli giovini, non tengono manco l’immagginazzione di como era  alla veramente la pricissione ammare di San Diatoro che si faceva a  quell’ebbrica e che si ha fatta fino all’ano 1950 più omeno, quando che tutto  si ha principiato a uastare.Essendo che la  traduzione dice che San Diatoro (già defunto) venette a Brindisi con un  bastimento, la popolazzione delli devoti aveva stabilizzato di fare tutti  l’anni una grandissima pricissione ammare, dove che annanti annanti andava una  varca più grande che portava San Diatoro, Bonsignore e una dirrupea di papi e  papicchi e di dietrovia venivano varche e varche antùrdici che ogne duna andava  una famiglia di devoti, acchì non teneva la varca sela fittava cottutto il  varcaiolo la quale voiava nel mentre che i fedeli precavano eccantavano.   Ma a questa pricissione nossi andava  solamente per precare eccantare, alla quale, colla scusa della devozzione,  dentrovia alle varche succiedevano feste e fistini dove che si mangiava  ebbeveva a tremolaterra che io mò vi faccio un presempio e vi conto di quella  fiata che andiede la famiglia di tata Ciccillo colla varca fittata insieme alla  famiglia di Pierino Lumanzu. (N.d.A.)
 La famiglia di tata  Ciccillo erano numero 8 personi e dippiù ci stavano i 3 personi della famiglia  Lumanzu che sarebbono 11 che col voiatore fanno 12 e positivo si fittarono una  paranza menzana che li poteva caresciare tutti, ma però si avevano fatto mali i  conti acquanto riguarda i pisi dell’aggente e ciovè di quanto pisava ogne duno  a persona e positivo succiedette quello che mò vi conto.   Prima di tutto cè da dire che queste due  famiglie erano parienti alla lontana e positivo si portarono un picca di robba  di mangiare dippiù, como presempio 4 puddiche colli chiapparini e pombidori, 2  pezze di casocavallo, 3 taielle di risopataneccozze, uno stanato di porpette e  brasciole di pulledro, 4 rote di pane di crano e poi i cacchitielli arrotta  di cueddo, la cupeta, i fichi seccati colle mendole, bocconotti, quarche  chilotto di pettole e numero 2 dammiggiane di Necramaro.   Ora ebbene, alle ore 4 del doppomangiare già  stavano tutti abbasso alle Sciabbiche e appiano appiano si sestimarono tutti dentrovia  alla paranza che ci mancava solamente Pierino Lumanzo la quale veniva l’ultimo  essendo che caminava congi congi alla scenduta di via Luccio Scarano.   Quando che lo vederono pervenire imbero alla  banchina si renderono di conto che erano sbagliati e che a quello ci voleva una  varca assolo per egli metesimo ma oramai era tardi eggià tutte l’altre varche  cariche azzeppa di cristiani si stavano mettendo affila pella pricissione.
 Eccosì tutti si stringerono uno a dosso all’altro modochè rimanette  vacante tutta la puppa della paranza nel mentre che nonno Cosimo diceva: uè  Pierì, vedi d’inchianare doce doce, un piete alla fiata che senò sciovertiamo  ammare!   E quello taccosì facette che  manco impoggiò un piete che già principiarono a iondoleggiare manco se stava  timpesta e quando mettette pure l’altro piete la varca s’impicò che l’aprùa si  sollevò all’aria cottutto nonno Cosimo assettato e la puppa scendette raso raso  all’acqua di mare che Pierino si assettò essi vagnò tutti i cazoni della vanda  del culo di dietro.   Acquesto punto il  varcaiolo principiò a iastimare dicendo che di quella barbara maniera lui si  doveva scanecchiare como un ciuccio in faccia   ai rimi, ma Pierino gli dicette che gli dava una cosa di sordi dippiù  basta che si stava citto e voiava.  E a  quello modo parterono pella pricissione che nonno Cosimo all’aria all’aria  pareva che doveva andare a pesca di pescispàta, tutti l’altri stavano mezzi  impicati di coste e Pierino si trovava di cul’ammare attipo ancora di  bastimento.  Ma i cazzamari principiarono  quando che si  dovevano mangiare tutta  quella grazzia Diddio che si avevano portato che nonna Cosima d’immezzo alla  varca pigliava una cosa alla fiata e cela passava all’altri la quale facevano  appassamano mò con una porpetta, mò con una brasciola di cui a nonno Cosimo che  si trovava assettimo cielo nogli arrivvava mai un amatocazzo di niente essendo  che quarche duno sela fotteva strada strada .    Eccosì, nel mentre che tutti mangiavano ebbevevano, nonno Cosimo  biastimava como un turco che alla fine gli dicette a Ciccillo: uè Ciccì, che  acquì addue tela dò, o mi passi il Necramaro o puramente mi sposto io eccosì  naufrachiamo tutti ecchì sene fotte!    Basta, senza che vela tiro allungo, alla fine il varcaiolo gli passò la  cannuccia di gomba che serviva per sgottare l’acqua della varca che una cima  sel’imboccò nonno Cosimo e l’altra la ficcarono dentrovia alla dammiggiana modochè si  poteva sucare il miero addistanza basta che si stava citto.  E benomale che stava la bonazza e il mare era  liscio como l’oglio doliva che senò cottutti quelli rivòtoli sicuramente si  avrebbero sciovertati e invece si facettero tutta la pricissione di quella  maniera che quelli dell’altre varche gli critavano: uè, nunnu Bompà, ecchè ti  hai mettuto per lampara?   O puramente:  uè Pierì, ecchè ti stai facendo uno semicupo d’iculo ammare?
 Ma tutto andiede  benissimamente che a quell’ebbrica all’aggente gli bastava proprio picca per  divertirsi e stare allecri e se quarche cosa andava storto quelli manco ci  badavano essi sapevano giustare attutte le situavazzioni, pure a quella varca  menza sciovertata, che quando traccarono abbasso alle Sciabbiche e scenderono  sobbr’alla banchina, tutti gli battettero le mani a quello quipaggio di  naviganti spericolati.
 
 
         
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