L'UOMO E LA SUA CITTA'
di Marisa Indini

Poiché mi è stato proposto di illustrare il rapporto fra Pino Indini e Brindisi, ritengo inevitabile parlarvi della strada in cui siamo nati e dove abbiamo trascorso i cosiddetti migliori anni della nostra vita: non lo faccio per spicciolo rétro né per inutile nostalgia, bensì nella convinzione che quella strada - e il variegato microcosmo che la animava - abbiano segnato in termini fondamentali la completa vicenda umana e intellettuale di mio fratello.  Sant' Aloj nell'immediato dopoguerra mostrava ancora a cielo aperto le vistose ferite inferte dai bombardamenti; purtroppo li scuffulati sarebbero rimasti tali per parecchi decenni, ma, sia grazie all'aria di libertà - assoluta e un po' anarcoide - che finalmente si respirava e che lasciava passare il resto in secondo piano, sia per l'atavica attitudine tipicamente meridionale alla rassegnazione e/o all'immobilismo, li scuffulati erano ormai diventati elementi acquisiti e immutabili del "paesaggio", nonché meta privilegiata di scorribande dei ragazzini, dei quali mio fratello era il leader indiscusso.  Gli abitanti vi avevano inconsapevolmente instaurato una forma spontanea e perfetta di "democrazia popolare" che, senza alcun bisogno di supporti ideologici o partitici, aveva annullato le differenze di classe, di censo e d'istruzione. Tutto si svolgeva in comune con tutti: si sciamava da un casa all'altra senza bussare né chiedere permesso, con la stessa disinvoltura con cui ognuno usava le stanze della propria abitazione; e tra una casa e l'altra ferveva un vivace interscambio di tiane, lembe, pignatieddi e salaturi, contenenti favi rrappati, rapicauli, stacchioddi, pisquetti e pipi all'acitu. Per non dire dei grandi eventi annuali, quelli scanditi dal calendario liturgico, quando s'ingaggiavano strenue competizioni tese alla confezione del miglior cacchitieddu pasquale, della migliore ’ncartiddata natalizia, della migliore pettula di carnevale e della migliore puddica per la "mellonata" di ferragosto. Vi assicuro che azzardare un giudizio di merito su quelle prelibatezze poteva rivelarsi pericolosissimo perché si rischiava di scatenare faide sanguinose.
Ma era nelle circostanze eccezionali che la condivisione si esprimeva al top: il lutto di una famiglia significava lutto collettivo, l'occasione lieta era gioia collettiva, una situazione difficile faceva scattare la solidarietà corale. Ed era in quei momenti che Sant' Aloj si trasformava in un vero e proprio teatro all'aperto, perché l'emotività si dilatava a dimensioni plateali con un accompagnamento sonoro ai massimi livelli di decibel: urla, strepiti, pianti, risate, schiamazzi, richiami da un capo all'altro della strada, che si sovrapponevano al consueto chiasso della variopinta folla di venditori ambulanti e di piccoli artigiani girovaghi.
Attorno a noi ruotava una girandola di soprannomi, spesso ereditati da antenati remoti e, quindi, non più aderenti ai tratti psico-fisici in base ai quali erano stati coniati nel passato, ma cosi radicati che ormai nessuno ricordava più i veri cognomi: fra gli amici di Pino, ad esempio, i vari 'Nzinu Pizzichicchiu, Rinu Machegna, Ucciu Llauru, ecc., c'era Rinu Zazzaredda, l'amico storico che, ancora oggi, se vuol farsi riconoscere telefonicamente, deve qualificarsi come Rino Zazzaredda, perché, se dicesse: "Sono Rino Guadalupi", la sua identità si smarrirebbe nell'incredibile sfilza dei Guadalupi brindisini.   Ed eravamo tutti collegati da una fitta rete parentale: niente a che vedere, beninteso, con una reale parentela anagrafica, bensì un numero davvero impressionante di nonni, zii, cugini e nipoti putativi, depositari però di affetti forse più autentici di quelli che intercorrono fra consanguinei. Si può capire, pertanto, come la condizione paritaria generale fosse un dato di fatto puro e semplice: per Pino e per me non c'era alcuna graduatoria d'importanza fra andare in campagna a raccogliere girasi, caccaveddi e liberzi sullo sciarrabai dei nostri vicini contadini (che nessuno si sognava di definire zambri o vualani), o frequentare le lezioni di Sacre Scritture presso il nostro coltissimo Zu Papa, alias don Frangiscu Cesaria; fra essere chiamati a dare una mano nelle maxi-fatiche periodiche o stagionali ti la ucata cu lu quaturu, ti la salsa o ti li matarazzi, o far circolare i nostri libri fra i coetanei ed esercitarci tutti insieme in poesie e recite natalizie.
L'innata propensione egalitaria si era spinta persino ad annullare il divario fra "opposti estremismi", sicché nessuno faceva caso a certi stupefacenti fenomeni "bipartisan" ante litteram: la nostra fantesca Cristina, ad esempio, mentre sfaccendava cantava a squarciagola "Faccetta nera" e "Giovinezza, giovinezza", ma poi trovava del tutto naturale, quando litigava con nostra madre (il che avveniva abbastanza spesso), esclamare: "Eh, si! Ha da venì Baffone!"; analogamente, il nostro vicino Salvatore passava candidamente da un corteo comunista, dove intonava con foga "Avanti, popolo" e "Su, fratelli, su, compagni", a una processione del Corpus Domini o ti San Ghiatoru, dove sfilava vistutu a fratellu, molto compreso del suo devoto compito.
Non vorrei, però, a questo punto, avervi fornito l'idea di un quadretto pittoresco, sempre idilliaco e armonioso. La vita in comune, con la sua totale mancanza di privacy, presentava i suoi bravi lati negativi. Non dimentichiamo che si trattava di un piccolo mondo chiuso in se stesso, arcaico e scarsamente alfabetizzato, quasi ossessionato da un bigottismo ottuso e da superstizioni paralizzanti. Bastava, quindi, una minima deroga dai ferrei binari imposti dalla sua mentalità arretrata per cadere vittime del pettegolezzo perennemente in agguato e trovarsi infilati nel tunnel senza uscita di un gossip capace di marchiare a fuoco per l'eternità. E si trattava, inoltre, di povera gente, resa eccitabile e sanguigna dal durissimo lavoro nei campi, sul mare e nella crescita di caterve di figli: un breve contrasto su un argomento banale bastava a far esplodere risse furibonde che in batter d'occhio coinvolgevano l'intera strada e degeneravano in caci, rranfi, scuddacchi e mazzati an capu cu patelle ti fricire, stanati e laianari. Ma questi episodi di rabbioso squilibrio erano per noi, nella nostra incoscienza adolescenziale, i momenti di massimo divertimento. Pino replicava per mesi quelle sceneggiate estemporanee, mimando i gesti e le voci di tutti i protagonisti e stratificandovi innumerevoli varianti e commenti. Cosa che, per altro, faceva quotidianamente nei confronti di tutti i nostri vicini: non se ne salvava uno; di ognuno parodiava le espressioni, imitava l'andatura, esasperava tic e difetti, storpiava il linguaggio.
Avrei ancora molte cose da raccontare, come, ad esempio, quell' atmosfera magica ma, a dir poco, bizzarra delle nostre vigilie di Natale, che Pino onorava con filastrocche, scenette e canzoncine di sua composizione, tanto esilaranti quanto dissacratorie; oppure, sulla fantasia, affascinante ma assai surreale ti li culacchi attorno alla brascèra nelle serate invernali, che Pino provvedeva a rielaborare e modificare in continuazione affinché il repertorio non venisse a noia; oppure, dell'allegria estiva su quella spiaggia d' incomparabile bellezza che era Sant' Apollinare (o meglio, Santa Pulinara, cosi come Sant' Aloj si pronunciava Santa Loi se non addirittura Santolò tutto attaccato) dove Pino non la smetteva mai di tuffarsi a volo d'angelo dal trampolino, a costo poi di rimanere per una settimana bocconi sul letto per guarire dalle ustioni solari. Pazienza! Tanto, ormai credo che vi sia sufficientemente chiaro quale vasto serbatoio di memorie e di quella strada abbia rappresentato per Pino nell'età adulta, e quale decisivo ruolo abbia avuto nella genesi di Coco Lafungia, il portavoce di una brindisinità vecchio stampo trasferito genialmente nell' incontro/scontro con la realtà spesso inaccettabile dei tempi moderni, il super-personaggio che ha concentrato in sé tutti i tipi e i comportamenti di quella stagione irrepetibile.
Eppure, al di là dell'aspetto e satirico, mi sento di affermare che la traccia più profondamente umana lasciata da quegli anni e da quel genere di vita, vada riscontrata nell'altra produzione letteraria di Pino Indini, quella dell' impegno poetico, narrativo e saggistico, dove la risata e lo sberleffo cedono il posto all' accento dolente e alla riflessione amara. Vedete: Sant' Aloj non era solo spasso e spensieratezza, come appariva a noi che la guardavamo con occhi di ragazzi giovanissimi e, se vogliamo, privilegiati per quell' epoca. Era l' emblema difficile e doloroso di un Sud ancora più a Sud, cui spesso veniva negata la più semplice e modesta aspettativa di esistenza. Era la tragedia del mare: quel mare cosi vicino alle nostre case da farci pervenire i suoi suoni e i suoi profumi, quel mare allora cosi bello che ci regalava il fresco del maestrale dopo l' afa e la suggestione notturna delle lampare sull' acqua scura, era lo stesso mare che a volte non lasciava tornare indietro chi del mare viveva; e noi di colpo non vedevamo più nella strada gli oggetti che fino al giorno prima ci avevano parlato di quel pescatore o di quel palombaro (le reti da riparare sulla soglia, gli scafandri posti a sgocciolare su alti trespoli, le ceste di pesce venduto porta a porta). Era la tragedia della terra, quando un'improvvisa e violenta grandinata sulle campagne distruggeva in un amen intere annate di fatica bestiale, e noi vedevamo quei volti cotti dal sole e quelle mani nodose come corteccia d' albero crollare nella disperazione più nera. Era la tragedia di chi partiva con la valigia di cartone per andare a cercare in paesi stranieri un' alternativa di sopravvivenza forse meno aleatoria ma sicuramente più frustrante.
Ma, nonostante tutto, è stata proprio quella gente a dare tanto a noi, e non il contrario: nella fiera dignità della sopportazione e persino della sconfitta senza rivincita, nella limpida onestà mai incrinata nemmeno dalle scelte più drammatiche, nell' intangibile rispetto dei valori sia con gli amici che con i nemici, nella pietà delle mani tese al conforto anche di errori e abbandoni, e nella sofferenza dell' uomo solo con se stesso quando l' aiuto altrui non basta più e non si riesce più nemmeno ad avvertire il soffio del divino intorno a sé; in tutto questo abbiamo potuto leggere un forte senso di appartenenza alle proprie radici e al proprio essere; vi abbiamo letto, in sostanza, una lezione di grande amore. Certo, un amore complesso e controverso come complessa e controversa è l'anima di Brindisi, amore costellato di luci e ombre, cadute e risalite, illusioni e disinganni, ma pur sempre amore.
Ecco, io credo fermamente che l'intera opera letteraria di Pino Indini ha voluto e saputo tesaurizzare questo patrimonio ricevuto da Brindisi, e che contestualmente Pino Indini abbia voluto e saputo ricambiare con un lascito testamentario di grande amore per Brindisi.


INTRODUZIONE DELLA PROPRIA TESI DI LAUREA "COCO LAFUNGIA E I RAGAZZI: UN PERSONAGGIO POPOLARE IDEATO DA PINO INDINI" - (Università di Bari - Scienze della Formazione)
di Rossella Belcuore

Con grande gioia ed entusiasmo ha accettato la proposta del professore Daniele Giancane di fare una tesi su Pino Indini. Non immaginavo che sarebbe stato così avvincente ed emozionante questa mia ultima tappa universitaria. Ho sempre creduto che la preparazione e la stesura di una tesi fosse un lavoro arduo e flemmatico, ma non appena ho sentito pronunciare il nome di Pino Indini subito dentro me si è accesa una fiammella e nella mia mente sono raffiorati dolci ricordi d’infanzia: era il mese di agosto e, nella tanto amata villa al mare, la nonna, con molta difficoltà perché aveva imparato a leggere da sola, era intenta a leggere a mio fratello e a me, prima di addormentarci ogni sera, I racconti di Coco Lafungia. Una sensazione di piacere e di benessere dei sensi mi avvolse il corpo…avrei finalmente potuto parlare di una “personaggio” della mia amata città, di un “personaggio” che era stato accanto a me durante tutte le mie vacanze estive d’infanzia, ed il lavoro di stesura tesi sarebbe stato per me un rievocare momenti indimenticabili, i più belli della vita di un essere umano: la propria infanzia. Pian piano quella piccola fiammella, che si era accesa nella studio del prof. Giancane, iniziava ad alimentarsi e a darmi la carica e l’entusiasmo giusto per incamminarmi in un meraviglioso lavoro di ricerca, conoscenze, esperienze, incontri,… Quando si parla del piacere dei sensi credo che si voglia dire proprio ciò: la voglia e l’entusiasmo di fare qualcosa, di parlare di quella determinata cosa, di andare alla ricerca del materiale, di sentirsi carica, piena di vita, piena di sogni, sentir appagato un proprio desiderio,… Innamorarsi di ciò che si fa. Innamorarsi della vita è ciò che è accaduto a me nello svolgere questo lavoro, mi sono innamorata di un sogno, di un’opera da realizzare, del vissuto di un uomo che è stato e sarà sempre parte della mia città. Sono poche le cose che ci fanno essere orgogliosi della nostra Brindisi e tra queste c’è anche il magnifico lavoro di un uomo eccezionale: Pino Indini che ci fa essere orgogliosi di appartenere a questa terra e ci invita a sognare e sperare in un futuro migliore innamorandoci delle bellezze della vita. Mi ritengo una ragazza davvero fortunata perché pochi ricevono il “privilegio” di realizzare una tesi così “vicina a sé stessi”. Non c’è cosa che mi rende più orgogliosa di parlare e scrivere di un “brindisino” e della mia città.


PINO INDINI E LA SUA BRINDISI
di Eduardo Argentieri

E’ cosa comune criticare il luogo dove siamo nati e dove viviamo. Questa verità che coinvolge tutti è dovuta al fatto che le nostre città ed i nostri paesi molto spesso abbisognano di decisi interventi sia sull’ambiente sia sulle persone che vi abitano.
Lo spirito critico è il simbolo della presa di coscienza di ciò di cui si viene in contatto, di quanto risalta alla nostra attenzione e quindi alla nostra analisi.
Non si discosta da questo comportamento neanche Pino Indini, mio indimenticabile Amico e costante confidente di quanto gli capitava nel bene e nel male della sua vita, ricca di quella liricità che la sua poesia e tutta la sua produzione letteraria ci ha dato, non solo, ma anche di tante amarezze che le difficoltà del vivere non gli risparmiavano. Forse proprio questo essere bersaglio di svariate sofferenze spirituali prima, fisiche poi, certamente lo hanno fatto poeta, scrittore di romanzi, creatore di fantasiosi personaggi (Coco Lafungia), raccoglitore di proverbi, di curiosità e financo di soprannomi.
Grande ed articolata, infatti, è stata la produzione letteraria di Pino Indini, il quale non si sentiva mai contento di quanto scriveva indugiando a fare feroci autocritiche, per poi promettersi di migliorarsi non soltanto nella forma dei suoi scritti , ma anche cambiando costantemente argomenti da trattare.
L’unico tema però che ha sempre prediletto ed a cui ha rivolto tutto il suo ingegno, il suo amore e la sua cultura è stato quello riguardante la sua città.
In molti suoi scritti, infatti, riecheggia il suo attaccamento a Brindisi, sempre amata, ad alcuni suoi luoghi tipici, al suo mare ed al suo porto. Non si può pensare a Pino Indini se non lo si inserisce nelle “cose” di Brindisi, nelle sue strade, nei suoi rioni e nei suoi cittadini. E’ inscindibile l’uomo Indini dalla gente che lo circonda in special modo da quella più umile di cui ne ha evidenziato le caratteristiche, le peculiarità che molto spesso divenivano, mediante la penna di Indini, personaggi tipici che con i loro comportamenti hanno costituito il passato, la tradizione della città di Brindisi. Se non ci fosse stato Indini  tutto sarebbe sparito, finito nel dimenticatoio, forse nel nome di un’ansia al futuro che disconosce ciò che è stato. La storia si interessa ed evidenzia  i grandi avvenimenti, i grandi uomini, Pino Indini invece si è soffermato sul vissuto dei brindisini più umili, sugli avvenimenti poco importanti ma che pur realizzavano un modo di essere, una precisa identità della città. Leggendo questi scritti di Indini ogni brindisino si ritroverà in quegli avvenimenti ed in quei personaggi, provando la grande gioia della coscienza dell’appartenenza, sentendo di essere inserito nella storia della propria città.
Il poeta Indini , il romanziere Indini, l’uomo Indini non h amai potuto fare a meno di Brindisi così come Brindisi non può fare a meno di Pino Indini.
L’attaccamento alla sua amatissima città  è riportato anche ne “La decapitazione di Via Appia” dove dice: “Non fu questo genere di disagio che investì quanti (come chi vi scrive) non hanno mai dato molto peso ai problemi di traffico, di viabilità, di scorrimento, di parcheggi, sì, insomma, di “urbanistica razionale”……..Chi guarda essenzialmente alla storia della propria città, chi è visceralmente “attaccato alle radici”, alle tradizioni, alle testimonianze ancora esistenti di un nobile passato, chi, diciamo, non ha una visione delle cose molto…pratica e materialistica, nella circostanza di quello sbarramento del 1987, interpretò il fatto come una “decapitazione” della secolare via Appia. A molti altri, infatti, questa considerazione sembrerà un’iperbole, tuttavia  è innegabile che via Appia abbia perduto il suo pezzo più importante, almeno per noi brindisini, quel pezzetto che conduceva fino allo storico arco di Porta Mesagne, arco considerato dai Romani come l’ingresso alla gloriosa Brundisium”.


Il grande poeta russo Evgenij Evtušenko ringrazia Pino Indini per una poesia dedicata a lui


PREFAZIONE ALL'OPERA "SOLI D'AGAVE"
di Daniele Giancane (Università di Bari)

Si individuano delle coordinate precise, nell'universo poetico di Pino Indini, punti di riferimento obbligati di un rapporto io-mondo che l'autore rende con lingua ormai matura, densa di umori, sul filo di uno straordinario equilibrio tra (questo mi pare l'archetipo centrale della raccolta) il restare e l'andare. C'e una dialettica terra-mare radici-fuga, meridionalita-esoticita che percorre le pagine di Soli d'agave: quanto più l'autore sente l'attaccamento antico e incancellabile alla propria terra (che d'altra parte mai Indini canta in termini retorica o di astratte raffigurazioni), tanto più si desta in 1ui la dimensione centrifuga; ed è allora che il lettore e attirato in una rete planetaria, dove New York e l'Oriente, le Azzorre e il Cile, Tel Aviv e Amburgo divengono luoghi reali, ma anche immagini dell'anima, simboli di una dilatata coscienza cosmica, in cui l'essere umano è sentito diverso e uguale, accomunato da un'antica sorte.
D'altra parte, gli stessi richiami a Chopin, Evtusenko, Gershwin, rientrano in questa cultura planetaria, in cui luoghi, personaggi, artisti e uomini della strada, affetti, storie, si intrecciano e intersecano fino a costituire un humus profondo e variegato.
L'altro nucleo di ispirazione di Indini è certo l'amore, sentimento protagonista di più liriche (vedi «Fortemente, dolcemente, con tristezza», «Lettera mai scritta», «Poesia d'amore»); ma il sentimento d'amore non è per Indini occasione di sdilinquimento, anzi anche in questi scritti esso è reso con immagini che si situano perfettamente nel contesto del suo mondo poetico: l'amore richiama quasi visioni campestri, ecologiche (volpi, ginestre, ramarro, abete selvaggio, rosa tea, gerani rossi) che vanno - alla maniera di Saba - a dare un'immagine tenera ma quotidiana della donna amata, come in «A tratti il tuo profilo», in cui il rammemoramento del tempo dei “gerani rossi” (simbolo evidente di giovinezza) e il profilo presente della donna che passa «da una stanza all'altra / schiacciando sigarette appena accese», si congiungono e preparano il finale lirico: «Ed era bello a sera / con te, tranquilla amante, / guardare insieme le profonde stelle».
L'altra chiave di interpretazione di “Soli d'agave” mi pare sia quella di una malinconica esistenzialita: sono i momenti in cui l'autore si chiede il significato profondo della vita, il senso delle azioni e degli affetti, le nostre tracce che finiranno per essere cancellate dal tempo. Leopardianamente Indini si auto-interroga: a che viviamo? I giorni sono uguali, «e tutto uguale intorno» e noi siamo «cariatidi sfinite». La dialettica eros-thanatos diventa qui l'elemento principale, che fa pendere la bilancia ora verso la biofilia, ora verso una sorta di scura necrofilia. Ma il poeta ha altre risorse, solitudine e presenza costante della morte non riescono in fine a scalfire la fede inesausta nella poesia, nella possibilità che ciò che si è dato non perisca: «La mia leggenda / verrà sepolta fra le zolle rosse...».
In questa direzione, il poeta quasi identifica completamente sè alla propria terra, che è l'altro elemento fondamentale della poesia di Indini: c'e una poesia, in questa raccolta, che risulta
davvero uno splendido spaccato del Sud, in cui si mischiano suoni, cieli, piante, animali, memorie di chi vi passò con l'aratro ed il sudore: «Terramara».
Qui, oltre che in altri luoghi di “Soli d'agave” (per esempio ne «La tua terra», dove anche il trapasso generazionale è per cosi dire mediato dalla terra), le metafore e le attese, gli amori sottesi e le rapide descrizioni - sempre secche e incisive - danno vita ad una sotterranea epopea, in cui uomo e natura sono indissolubilmente legati, in un alone di mitica grandezza quotidiana.


PREMESSA AL POEMA "GENESI"
di Daniele Giancane (Università di Bari)

GENESI di Pino Indini e uno straordinario poema d'amore, denso di immagini, di suoni, di improvvisi squarci lirici, di sogni e di spazi aperti, di un'inesausta ricerca di libertà e di vitalità. Nella scrittura di Indini, a tratti allucinata, come posseduta da un demone, in effetti, pare centrale la ricerca di un altro luogo, un eden dove siano abbattuti pregiudizi e schematismi, respinti gli "spacciatori di dogmi e di utopie / falsari di leggende e allegorie"; là - in quel paradiso senza peccato - gli innamorati potranno finalmente vivere una storia d'amore non vincolata dai dettami del vivere sociale, ma a contatto con una natura positiva ed anzi dove i corpi degli amanti saranno tutt'uno con i succhi della terra, con le radici degli alberi, con i ritmi del cosmo. Ora, che ogni poeta tenda al poema d'amore e forse scontato, ma rari sono coloro che affrontano poi davvero questa che è un po' una prova del fuoco, in cui ci si può esaltare ma ci si può anche perdere; i rischi della retorica, del déjà vu, del sentimentalismo di bassa lega sono sempre in agguato. Anche da noi, in Puglia, si può affermare che - se è vero che molti poeti si dedicano alla scrittura d'amore - soltanto Biagia Marniti ci ha poi offerto uno splendido canzoniere d'amore con il suo "Più forte della vita", dove la rarefazione del testo ermetico si apriva al racconto di una vicenda nella sua parabola dall'iniziale incendio dell'anima e dei corpi alla sua consumazione ed alla cenere rimasta.
Ma in Pino Indini c'e una diversità fondamentale: il poeta scrive, per cosi dire, a caldo, nel momento in cui le emozioni lo prendono e quasi lo stravolgono, sino a dare l'impressione che non sia il poeta a controllare la scrittura, ma avvenga quasi il contrario, che il poeta sia semplicemente lo strumento attraverso cui la materia lirica viene alla luce.
Inoltre - piuttosto che raccontare la memoria o soltanto il presente - il poeta canta il futuro, o meglio, il sogno del futuro: come in una metafisica visione, in GENESI, e soprattutto nella chiusa, Indini intravede la possibilità di un universo alternativo. Come nel day after, egli immagina una umanità nuova che ricominci, forse, dai graffiti delle caverne "con fughe di bisonti ed unicorni”, ma che riconosca le infinite sovrastrutture, i laccioli che l'hanno incatenata e resa sofferente. Da questo riconoscimento la nuova razza di umani trarrà la lezione che occorre vivere seguendo i ritmi della natura e dei pianeti che ci sovrastano, di nuovo immergendosi nella infinita varietà dei miti. Ovviamente l'immagine del futuro che redime può intendersi in GENESI in due maniere differenti: in senso ecologico/naturalistico (e fors'anche storico) e nel senso metaforico; probabilmente però, si tratta di una sorta di Giano bifronte, di interpretazioni che si integrano vicendevolmente.
La cascata di immagini del poema, in chiave psicanalitica, sicuramente sublima una pulsione sessuale evidente: GENESI è percorsa da un fremito erotico incessante (sarebbe interessante comparare questa nuova scrittura di Indini coi poemi del vate, Gabriele D'Annunzio, giacché in ambedue, a ben guardare, vitalismo dinamico, forte erotismo e disprezzo per i clichès morali della società, sono l'epicentro dell'ispirazione).
Ma GENESI è anche poema di accattivanti sonorità, dove le parole (come le immagini) possono per incanto esaurirsi in una musicalità straziante, in un verso estremamente ritmico, di diversa composizione metrica, dove il settenario costituisce un punto di riferimento sonoro.
Un poema intenso e coinvolgente, che mostra un altro volto di questo scrittore capace di diversi itinerari di ricerca, sempre con esiti assai elevati e compatti.


CONSIDERAZIONE
di Mario Schiattone (Università di Lecce)

"Considerate la Vostra semenza" di esseri dimidiati e offesi dall'inquietudine perenne, dal "fuoco" dell'attrazione che spinge in vortice i sensi e la psiche, troverete il bandolo della libertà solo nell'amore, nell'eros. L'amore è genesi, l'amore è fine. Cosi INDINI propone un'etica della trasgressione, l'unica possibile nella dispersione quotidiana del nichilismo imperante e del perbenismo strutturato a "morale". Il coraggio del poeta e proprio qui, nell'affermare quello che tutti sanno e che nessuno recita, neanche nel solipsismo. E qui il destino di morte dell'uomo, infatuato della ricchezza e confuso nell'eros, ha troppo distorto la sua figura "elementare", perciò non splenderà mai più come "stella nuova".


“LA POESIA DIALETTALE CONTEMPORANEA IN TERRA BRINDISINA” di Mimmo Tardio
da "LETTERATURA DEL NOVECENTO IN PUGLIA 1970-2008" a cura di Ettore catalano

Pino Indini, brindisino, da poco scomparso, è forse il caso letterario più «intrigante» e complesso, già a partire dalla sua multiforme esperienza artistica. Fu un poligrafo vero e proprio che volle con ogni probabilità camuffare (in una sorta di contrappasso) la sua grande sapienza poetica e narrativa attraverso la creazione di una maschera dialettale spassosa e notissima, Coco Lafungia, che contraddiceva la natura profondamente letteraria e colta del suo mondo culturale. In tanti suoi estimatori permane il ricordo dei suoi cammei su Coco Lafungia, le piroette linguistiche, i doppi sensi, i termini dialettali volutamente sapidi e popolani, tipici di certo becerume popolare, senza che vi sia da parte loro la conoscenza dell' «altro» Indini, poeta e scrittore di notevole spessore in lingua italiana.
Pino Indini fu il campione d'un dialetto reinventato, come nel caso di Andrea Camilleri e del suo commissario Montalbano, magistralmente piegato all'esigenza del doppio senso e dell'espressività, comica e tragica, che proprio la natura storica e sociale del dialetto consente di dispiegare meglio, rispetto alla stessa lingua nazionale. Va ricordato, inoltre, che egli vanta ben ventitré opere, tra narrativa, poesia, saggistica, satira e costume popolare e che diverse di queste opere sono state più volte ristampate. Si è anche sostenuto che egli abbia dato inizio, ante litteram, a una sorta di nuovo genere letterario, attraverso la creazione di un personaggio non molto presente nella letteratura meridionale: il giullare, il benefico matto di paese, pur dotato d'una sua intelligenza, che ricorrendo a canti sapidi e lazzi vari si prende gioco dei potenti di turno. È un artista, per concludere, al quale probabilmente occorrerà prestare più attenzione, promuovendo per esempio la pubblicazione dell'antologia che raccoglie le sue più belle poesie in dialetto brindisino, ancora inedite, che non a caso egli già intitolò Cuore brindisino.

 


© Francesco Indini 2010